Il mobbing: ricapitoliamo e.. parliamo di doppio mobbing

Rieccomi! Oggi, come promesso settimana scorsa, recupererò le fila del discorso ed approfondirò un argomento.

riassuntoRiassumendo quello che abbiamo detto l’altra volta:

-il mobbing è una forma di violenza psicologica perpetrata sul luogo di lavoro;

-gli attori del mobbing sono: il mobber, il mobbizzato ed i side-mobber (o co-mobber);

-il mobber può essere: una persona, due o più o l’intera organizzazione;

-il mobbing può essere: verticale (dall’alto o dal basso) od orizzontale;

-il bossing è il mobbing attuato dai vertici dell’organizzazione per spingere un lavoratore alle dimissioni;

-si parla di doppio mobbing quando il mobbing coinvolge anche la famiglia del lavoratore.

Oggi vorrei approfondire proprio questo ultimo punto..

Dapprima occorre distinguere tra la “famiglia mediterranea”, orientata al mantenimento di un rapporto privilegiato coi figli anche in età adulta, e “famiglia nordeuropea”, portata all’indipendenza ed all’autonomia dei figli.

Family ReunionPerchè questa distinzione? Perchè il diverso ruolo della famiglia determina un diverso coinvolgimento di tutti i membri nel caso che uno di loro venga mobbizzato. Per essere chiari, il doppio mobbing è più comune nelle famiglie mediterranee, nelle quali tutta la famiglia è portata a vivere le stesse emozioni provate dal componente mobbizzato.

Cosa comporta il doppio mobbing? Non è una conseguenza “voluta” dal mobber.. accade che il mobbizzato cerchi e trovi supporto parlando della propria situazione ai propri familiari.

FamigliaQuesto potrebbe farci pensare “bene, così riuscirà a resistere e ad uscirne”, solo che il mobbing non è un breve periodo di crisi, ma una lunga e dolorosa esperienza.

Seppure all’inizio il mobbizzato trovi la forza di andare avanti, questo comporta intanto il suo permanere più a lungo nella situazione (sfogandosi con la famiglia non si sfogherà sul lavoro, licenziandosi o denunciando il problema) e successivamente anche la famiglia esaurirà le energie per supportarlo. Così oltre al mobbing sul lavoro, l’interessato si sentirà a disagio anche in famiglia.

scimmietteSi intenda, non è un comportamento adottato consciamente dagli altri membri, è solo che così come il singolo, anche il gruppo-famiglia ha un livello di saturazione. Ad un certo punto la famiglia “chiede” al mobbizzato di non lamentarsi più, perchè il gruppo è portato a difendersi, a discapito del singolo.

E’ un po’ triste questa prospettiva, ma uno spiraglio di luce c’è: la famiglia anzichè “solamente” supportare il mobbizzato, può aiutarlo a reagire. In questo modo il gruppo-famiglia vedrà un sentiero percorribile insieme fino al ritrovamento del benessere comune.

Il mobbing: che confusione! Mobbing dall’alto, dal basso, orizzontale, doppio.. Facciamo chiarezza!

Eccomi di nuovo qui a parlarvi di mobbing.

Nel 1997 Ege scriveva: “Il mobbing è una forma di terrore psicologico […] esercitato sul posto di lavoro.” lo stesso Ege, nel 2002, ci ripropone una definizione di mobbing cinque volte più lunga della precedente (che non copio, ma che potete trovare cliccando il link)! Ma non per una dimostrazione di eloquio, è successo che più il mobbing veniva studiato, più la situazione si faceva complicata..

Oggi proverò a fare luce sulle diverse forme di mobbing.

Iniziamo col definirne gli attori: abbiamo il mobber (la persona che lo compie), il mobbizzato (la vittima) ed i side-mobber o co-mobber che sono gli spettatori (non sempre innocenti) della situazione di mobbing. Perchè “non sempre innocenti”? Perchè spesso, così come accade a scuola con il bullismo fra i ragazzi, il mobber (il bullo, a scuola) è quello che agisce, ma i co-mobber sono quelli che non alzano un dito o non dicono una parola per fermare il mobber o quantomeno per proteggere la vittima.

mobbing1Tornando al mobber, il ruolo può essere interpretato da una sola persona, da due o più o dall’intera organizzazione.

Il mobbing può inoltre essere verticale (dall’alto o dal basso) o orizzontale; esistono poi il mobbing attivo (diretto) e quello passivo (indiretto).

Per mobbing verticale dall’alto intendiamo quello esercitato da un superiore del mobbizzato; il mobbing dal basso è  invece esercitato su un superiore, è più raro e perlopiù è passivo (frutto di azioni subdole e poco visibili: isolare, evitare, bypassare o boicottare). Il mobbing orizzontale è quello tra pari ed in genere è attuato da due o più persone. Nel caso del coinvolgimento dell’intera organizzazione, il mobbing riguarda l’interazione tra lavoratori e vertici. All’interno di questa categoria si situa il bossing, ossia una situazione nella quale i vertici dell’organizzazione esercitano pressione psicologica su uno o più lavoratori al fine di spingerli alle dimissioni (una “strategia” di riduzione del personale a dir poco unfair).

mobbing2Infine un accenno al doppio mobbing: riguarda il coinvolgimento della famiglia del mobbizzato ed è più frequente nella cultura mediterranea (caratterizzata da legami familiari più stretti).

Per oggi credo di aver creato abbastanza confusione, nel prossimo post recupererò brevemente le fila del discorso e vi parlerò in modo più approfondito del doppio mobbing.

Il mobbing: quando qualcuno vuole “farti fuori” (e te lo fa capire) (II)

Come preannunciato, oggi parlerò ancora di mobbing, facendo in particolare riferimento alle teorizzazioni compiute da Leymann.

Per riassumere il concetto di mobbing, ricorrerò alla definizione utilizzata dall’autore nel 1996: “comunicazione ostile e non etica perpetrata in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo che, a causa del mobbing, è spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa e lì costretto per mezzo di continue attività mobbizzanti. Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta (definizione statistica: almeno una alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (definizione statistica: una durata di almeno sei mesi). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata, il mobbing crea seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali.”

conflitto3Leymann vedeva il conflitto come principale presupposto del mobbing. Come sappiamo però oggi, il conflitto è molto più spesso fisiologico che non patologico, soprattutto nelle situazioni gruppali. Tuttavia, quando patologico, mette a dura prova l’omeostasi dall’ambiente lavorativo e può comportare l’individuazione di un capro espiatorio (scape goat) sul quale vengono riversate le frustrazioni ed al quale si attribuiscono le colpe.

over competition

In altri casi, può succedere che sia l’azienda stessa a stimolare e ad incentivare la competizione interna. Questo non è di base un principio erroneo, ma bisogna saper dosare adeguatamente le richieste con le capacità che i lavoratori hanno di farvi fronte, onde evitare l’induzione di un conflitto che potrebbe trasformarsi in over competition.

Se la definizione che vi ho fornito vi sembra molto attuale, questo è dovuto al fatto che nel tempo la definizione di mobbing si è affinata e complicata, ma i parametri sono rimasti pressoché i medesimi definiti da Leymann.

Nei prossimi post vi parlerò ancora di mobbing: dei suoi “attori” e delle tipologie possibili.

(Favretto, 2005)

Il mobbing: quando qualcuno vuole “farti fuori” (e te lo fa capire) (I)

Rimanendo come promesso ancorata all’organizzazione, dopo aver parlato del burnout, vi parlerò oggi di un fenomeno crescente e difficile da fermare: il mobbing.

Il mobbing è una forma di molestia o violenza psicologica esercitata, quasi sempre, con intenzionalità lesiva, ripetuta in modo iterativo e con modalità polimorfe (Gilioli, et al., 2001).

 Mobbing1

Il termine mobbing, dall’inglese to mob, accerchiare, assalire, attaccare, è stato utilizzato la prima volta per riferirsi ad un gruppo di animali della stessa specie che, coalizzatosi contro un membro del proprio gruppo, lo attacca ripetutamente al fine di escluderlo (per allontanamento o autoeliminazione). In seguito, negli anni Settanta fu utilizzato in Svezia per riferirsi ad un comportamento ostile e di lunga durata riscontrato tra scolari, ma in seguito si ricorse al più appropriato termine bullying (in Gran Bretagna il mobbing è ancora definito bullying at work).

È solo negli anni Ottanta che Leymann, psicologo del lavoro, adopera per primo questo termine con riferimento all’ambito lavorativo. Vi si riferisce come ad un tipo di vessazione psicologica, esercitata sul posto di lavoro, ripetuta e prolungata nel tempo che comporta disturbi da stress postraumatico. Gli attuali orientamenti concordano nell’individuare invece la prima e più probabile conseguenza dannosa nel disturbo d’adattamento che crea sofferenza psicologica, ma nel quale non è presente la percezione di pericolo di morte (contemplata dallo stress postraumatico).

Mobbing2Vi ho detto che è difficile sia da individuare che da fermare, e nemmeno l’accordo europeo del 2004 (Deitinger, et al., 2009) ci viene incontro: in tale occasione viene infatti affermato che, pur riconoscendoli come fattori di stress lavoro-correlato, “…il presente accordo non concerne la violenza, le molestie e lo stress post-traumatico” (D’Orsi, et al., 2012, pag. 8). Il mobbing sembra pertanto essere al momento escluso dalla normativa vigente.

Per oggi non aggiungo altro, domani farò qualche affondo sulla concezione di Leymann sul mobbing.

La sindrome del burnout: quando un lavoratore è esaurito (II)

Oggi continuerò il discorso intrapreso ieri, esattamente da dove ci siamo lasciati: il lavoro di Maslach e Leiter.

Bunout4

I due autori focalizzano l’attenzione sul grado di accordo (match) o disaccordo (mismatch) tra il lavoratore e sei aspetti dell’ambiente organizzativo: maggiore è il grado di accordo maggiore è la possibilità che si sviluppi engagement sul lavoro; maggiore è il grado di disaccordo maggiore è la possibilità che insorga il burnout. In questo modello, il burnout diventa mediatore tra i fattori organizzativi e le conseguenze sia per la salute dei lavoratori che per l’organizzazione (assenteismo, produttività, inefficienza, ecc.).

Le sei aree prese in considerazione dagli autori come antecedenti del burnout sono:

– il carico di lavoro elevato, spesso accompagnato alla difficoltà di recuperare le energie;

– il controllo insufficiente sulle risorse necessarie per svolgere il lavoro o un’autorità insufficiente per gestirlo nella maniera desiderata;

– il riconoscimento mancato o insufficiente;

– il supporto non presente o insufficiente da parte dei colleghi di lavoro e la presenza di conflitti irrisolti o cronici;

– l’equità mancata rispetto al carico di lavoro, alla retribuzione o agli avanzamenti di lavoro;

– i valori intesi come il conflitto tra quelli del lavoratore e dell’organizzazione.

Il grado di disaccordo tra persona ed ambiente di lavoro si misura tramite specifiche combinazioni e l’analisi di delicati equilibri, non dalla semplice sommatoria delle varie aree.

OCS2I due autori hanno anche poi strutturato un test (OCS – Organizational Checkup System) di cui avrò modo di parlarvi quando affronteremo i vari test.

In sintesi, posso affermare che le condizioni lavorative predittive del burnout sono del tutto sovrapponibili ai fattori favorenti lo stress occupazionale, pertanto la valutazione dello stress lavoro-correlato comprende (e deve comprendere) anche tale fenomeno.

Per oggi è tutto; il prossimo argomento sarà ancora più (purtroppo) ancorato alla vita lavorativa odierna, vi parlerò infatti di mobbing.

(Favretto, 2005; Avallone, 2011)

La sindrome del burnout: quando un lavoratore è esaurito (I)

Dopo una serie di post di approfondimento, voglio tornare a calarmi con voi nel contesto organizzativo e lo farò affrontando il tema del burnout, definendolo e connotandolo storicamente.

BurnoutCon questo termine si indica il lavoratore “bruciato”, “fuso” e si descrive il quadro sintomatologico individuale (sistematizzazione teorica di una sindrome soggettiva) conseguente a condizioni di stress cronici prolungati, di tipo emozionale, presenti sul posto di lavoro. Un lavoratore in situazione di burnout, compie un progressivo ritiro dalla vita relazionale organizzativa, si distacca e disaffeziona e può sviluppare sindromi organiche e funzionali.

Il burnout si articola in tre aspetti:

– l’esaurimento emotivo (eccessivo impiego delle risorse affettive)

– la depersonalizzazione (distacco dalle persone) ed il cinismo (distacco dal lavoro)

– il senso di inefficacia personale (componente autovalutativa)

L’uso del termine burnout fa la sua comparsa intorno agli anni settanta negli Stati Uniti, tra le persone che lavorano nei servizi sociali e di cura. Agli inizi il focus della ricerca era la relazione tra chi forniva un servizio di cura ed assistenza (operatore) e chi lo riceveva (utente/paziente). Successivamente, lo studio del burnout viene esteso ad altre professioni (ad esempio manager, militari, inseganti, ecc.) e diviene sempre più chiaro che il burnout è la conseguenza di un’interazione tra la persona ed il proprio contesto di lavoro.

burnout2Cristina Maslach, insieme a Leiter (1997), ha inquadrato la sindrome all’interno di una cornice teorica coerente con i modelli di un adeguato fit persona/ambiente (vedi “I modelli dello stress: Caplan”). Tuttavia la Maslach fa riferimento più alla sfera emotiva, relazionale ed alle risposte allo stress piuttosto che ad aspetti della personalità dell’individuo. Inoltre, allarga lo sguardo al più ampio contesto organizzativo piuttosto che al compito lavorativo specifico e circoscritto.

Per oggi è tutto, domani parlerò ancora di burnout riprendendo il discorso da dove ci lasciamo: il lavoro di Maslach e Leiter.

(Favretto, 2005; Avallone, 2011)

Approfondimento: lo stress lavoro-correlato visto dagli studiosi – Caplan (II)

Come promesso, oggi vi parlerò delle relazioni esistenti tra i quattro parametri che vi ho mostrato ieri.

Modello_CaplanNello specifico possiamo osservare nel versante oggettivo che, quando le ROA sono equilibrate alla DOP, abbiamo un adattamento oggettivo. Secondo Caplan, questo adattamento è aiutato dal coping, inteso o come cambiamento dell’ambiente verso le abilità della persona (mastery ambientale), o come cambiamento della persona verso le richieste dell’ambiente (adattamento). Il coping ha in questo modello una caratterizzazione obiettiva: è costituito da effettivi cambiamenti a livello organizzativo e/o personale.

Nel versante soggettivo l’avvicinarsi della SROA alla SDOP comporta un adattamento soggettivo, supportato dalle difese psicologiche. Al contrario del coping, la difesa è un cambiamento che avviene nella percezione soggettiva sia dell’ambiente che della persona, senza un corrispondente parallelo cambiamento della parte oggettiva. Per estremizzare, se credessi di essere Napoleone e di trovarmi in battaglia il mio adattamento soggettivo sarebbe perfetto.napoleonePer questa possibile discrepanza tra la sfera oggettiva e quella soggettiva, il modello P/E considera altre due relazioni che attualizzano e consolidano le dimensioni organizzative e tecniche della vita aziendale, in rapporto ai bisogni ed alle rappresentazioni soggettive che l’individuo si crea delle stesse.

La prima è definita contatto con la realtà ed intercorre tra ROA e SROA e ne definisce la corrispondenza; la seconda è l’accuratezza dell’autopercezione e definisce la sintonia tra la DOP e la SDOP.

Abbiamo definito tutti gli elementi caratterizzanti il modello, ora capirne il funzionamento è abbastanza semplice. Il modello si propone di misurare le discrepanze tra i quattro parametri e quindi di definire la natura delle relazioni che intercorrono tra di essi. La teoria vuole che quanto maggiore è la sovrapposizione tra i due versanti ed all’interno degli stessi, tanto più l’ambiente organizzativo ed il lavoratore sono in situazione di benessere.

È bene tuttavia sottolineare che non sempre un perfetto contatto con la realtà od una elevata coscienza delle proprie caratteristiche sono associate ad una situazione ad elevato benessere psichico: alcuni meccanismi che distorcono leggermente la valutazione possono infatti facilitare l’individuo a meglio gestire una situazione.

(Favretto, 2005; Avallone, 2011)

Approfondimento: lo stress lavoro-correlato visto dagli studiosi – Caplan (I)

Approfondimento del post “Lo stress lavoro-correlato

Uno dei modelli a mio parere più interessanti è quello messo a punto da un gruppo di psicologi sociali e del lavoro a fine anni ’70: il modello del Fit Persona/Ambiente o P/E (personal/environment). Oggi voglio farvelo scoprire.

Rifacendosi alla famosa teoria del campo lewiniana C = f (PxA), questo modello tiene conto non solo della persona (abilità, aspettative, motivazioni, rappresentazioni sociali) ma anche di parametri obiettivi dell’ambiente. Il suo valore è costituito anche dal fatto che rappresenta un disegno teorico equilibrato che controbilancia la tendenza ad ipervalorizzare la valutazione personale e psicologica: integra l’approccio psico-sociologico con quello classico organizzativo.

bilancia2Il modello P/E tiene particolarmente da conto della distinzione tra elemento soggettivo ed oggettivo. Sostiene infatti che sia possibile dapprima misurare oggettivamente sia la persona che l’ambiente ed in un secondo momento la percezione che il soggetto ha sia di sé che dell’ambiente che lo circonda.

All’interno del contesto organizzativo, la relazione P/E viene vista secondo due prospettive: il bisogni/risorse, considerato dalla parte del lavoratore, che identifica da un lato i bisogni della persona e dall’altro le possibilità che l’organizzazione offre per soddisfarli. La seconda prospettiva è definita abilità/domanda, vista dal punto di vista dell’organizzazione, e mette a fuoco le capacità che ha il lavoratore per far fronte alle richieste del lavoro.

Modello_CaplanNel modello P/E vengono presi in considerazione quattro parametri fondamentali. Dal versante oggettivo troviamo le richieste organizzative dell’ambiente (ROA), intese come compiti, regole, metodi, ecc. e la dotazione organizzativa della persona (DOP), ossia le caratteristiche oggettive possedute in relazione alla mansione da svolgere. Dal versante soggettivo troviamo la percezione che il lavoratore ha dei due ambiti appena citati e dunque abbiamo la rappresentazione delle richieste dell’organizzazione (SROA) e la rappresentazione della propria capacità di rispondervi (SDOP).

Tra questi quattro parametri si vengono ad instaurare delle relazioni a soffietto che andremo però ad indagare nel prossimo post.

(Favretto, 2005; Avallone, 2011)

Approfondimento: lo stress lavoro-correlato visto dagli studiosi – Karasek (II)

Continua da Karasek.

Come vi ho promesso, oggi descriverò i quattro scenari descritti dall’incrocio delle nostre due variabili (Domanda e Controllo):

Karasek_modellostress– lavori ad alto strain (1): lavori che creano un’alta “tensione” psicologica nei lavoratori, dovuta ad un alto carico lavorativo; tale tensione si può manifestare con sintomi di ansietà, depressione, esaurimento e diversi disturbi psicosomatici. Secondo il modello di Karasek, in questo caso ad alto livello di domanda corrisponde un basso controllo.

– lavori attivi (2): alto grado di discrezionalità ed alto grado di domanda psicologica. Il lavoratore può esprimere le proprie capacità ed attitudini pienamente; i soggetti sono portati a produrre e ad apprendere di più, sono inoltre indirizzati verso l’impegno in altre attività ricreative e costruttive, al di fuori del contesto lavorativo.

– lavori a basso strain (3): bassa domanda ed alto controllo. Questi lavori non sono caratterizzati da problemi legati alla tensione psicologica: sono rilassanti, tengono al riparo il lavoratore dalle tensioni ed evitano il rischio di malattie. Spesso i lavoratori che svolgono questi impieghi sono soddisfatti della loro professione.

– lavori passivi (4): bassa domanda ed impegno e basso controllo e possibilità di utilizzare le proprie abilità. Troviamo infine compiti che tendono ad inibire le iniziative e le proposte dei lavoratori: non creano stress, ma determinano una sempre minore capacità di apprendimento e, di conseguenza, un decremento delle capacità lavorative.

Karasek considera anche altri fattori, in particolare lo sforzo fisico ed il sostegno sociale. Nel primo caso, tanto più allo sforzo psicologico si aggiunge la fatica fisica tanto più aumentano la tensione ed il rischio di malattie somatiche; nel secondo, quanto maggiore è il supporto che il lavoratore riceve tanto minori saranno i rischi derivanti dalla tensione psicologica.

Ci sarebbero altre cose da raccontarvi, ma mi dilungherei troppo. Mi fermo qui, ma nel caso qualcuno fosse interessato, non esiti a contattarmi o a commentare.

(Favretto, 2005; Avallone, 2011)

Approfondimento: lo stress lavoro-correlato visto dagli studiosi – Karasek (I)

Approfondimento del post “Lo stress lavoro-correlato

Dopo avervi presentato il modello di Cooper, voglio proporvi quello di Karasek.

Karasek teorizza nel 1989 un modello dello stress organizzativo, da lui definito “Domanda/Controllo”, che cerca di studiare e prevedere un ampio spettro di conseguenze psicofisiche e comportamentali.

L’autore nel formularlo aveva in mente l’obiettivo di fornire elementi di valutazione utili per la progettazione dei compiti lavorativi (job design) che prevengano e contengano le condizioni ed i comportamenti lavorativi che possono causare livelli elevati di strain, che spesso sono il preludio per seri disturbi psicosomatici.

Il modello di Karasek prevede due fattori fondamentali:

– la Domanda (carico di lavoro), che può essere concepita in termini di impegno psicologico e fisico (carico, ritmi di lavoro, richieste e vincoli);

– il Controllo, che concerne sia la capacità del lavoratore di svolgere il proprio compito, sia la discrezionalità nell’organizzarlo. La discrezionalità comprende anche la ripetitività degli incarichi, il livello di creatività e di abilità richiesto, la flessibilità consentita, l’occasione di valorizzare le proprie competenze e l’opportunità di imparare.

Il rapporto tra D e C consente di individuare quattro possibili condizioni du cui parleremo domani.

Karasek_modellostress

Alcuni autori e lo stesso Karasek hanno in seguito ampliato ed adattato il modello a seconda del contesto di utilizzo. Una variante si focalizza, ad esempio, sul supporto sociale percepito (Johnson e Hall, 1988); è consigliabile adattare il modello Domanda/Controllo affinchè possa dare informazioni più utili e concrete sui fattori di rischio e fornire chiavi di lettura. Secondo Sparks e Cooper (1999), la modalità con cui Domanda, Controllo e supporto si combinano è unica e specifica nei diversi gruppi.

Oggi abbiamo dunque descritto gli assi principali del modello. Domani prenderemo invece in considerazione ciascuno dei quattro quadranti e ne capiremo le caratteristiche principali.

(Favretto, 2005; Avallone, 2011)